FONTI E
SORGENTI DI ANTICA MEMORIA
In occasione dell’escursione nell’Appennino
Toscoromagnolo del 29 aprile 2012, che passerà da undici sorgenti definita “Alla
Ricerca Dei Suoni E Dei Sapori Dell’Acqua”, noi umili narratori,
ringraziamo la Casa
Editrice La Falda,
che in una sua qualificata collana che ha per titolo “Solo Vicende Certe”, ha deciso
di pubblicare questa opera letteraria che si può definire di nicchia, realizzata per
persone con un patrimonio di conoscenze elevato, “siamo a 1000 m.
circa” e uomini con l’animo puro e cristallino come le acque che incontreranno.
O
viandanti che oggi camminate in questi magici luoghi di perduta memoria
sappiate
che le sorte vi è amica, qui le acque sorgive sono prodigiose, basterà un sorso
bevuto ad ogni sorgente o fonte che incontrate per trarne grande beneficio.
Domani
mattina al risveglio andate a rimirarvi allo specchio e non vedrete più la
persona che eravate ieri, ma un essere umano migliorato e arricchito dai bei
ricordi vissuti con gli amici il giorno prima.
Benedite
e glorificaste con le vostre devozioni, gli umili accompagnatori che tanto
fecero e brigarano per allietarvi l’intelligenza e l’animo.
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Luigiotto della Maestà e Cecco de' Crivellari mentre iniziano la declamazione delle storie delle fonti |
FONTE AL LUPO
Gentili cavalier, cortesi dame,
voi che da questi sentier spesso passate, provate ad
ascoltar la voce mia,
che dentro il vento ormai va per la via.
Io, Ugobaldo fui chiamato
e nobil di famiglia ero, e di cuore,
e la speranza mia era l’amore.
L’amore che volea contraccambiato da Angelica la più
bella del contado.
Or dame e messeri per favore, fate silenzio e vi
conterò,
cosa successe in quelle strane terre e la fine assurda
che farò.
Versi di romanza cantate dai menestrelli
all’inizio del XIV° secolo nelle nostre terre, di ignoto autore.
Si
io nacqui in quelle terre fra la
Toscana e le Romagne, negli anni a fine del 300, terre
splendide e boschive alternate a bei paesi, ma la bellezza della natura era
rovinata dalla violenza dell’uomo che per ragioni di potere riteneva che
l’unica sua arte nobile fosse la guerra.
Io
ero figlio di Ugoberto il Manfredotto e di donna Beatrice discendenti di nobili
casate e la mia infanzia fu felice, chiuso nella mia piccola reggia e protetto
dalla violenza, dalle spesse mura della mia dimora e dalle spade degli armigeri
di mio padre.
Mi
affacciai anch’io all’età più bella quella dell’adolescenza, dove cominciai a
praticare l’esercizio della spada con il mio maestro Asterino da Todi, che
seguiva le imprese di mio padre da tanti anni e mi insegnò le tecniche più innovative
per far di me un grande cavaliere.
Un
giorno accompagnai mio padre a trovare Gioacchino da Bibbiana al suo maniero, e
incontrai Lei, forse aveva 15 anni, Angelica era il suo nome ad era la figlia
prediletta di Gioacchino, che l’aveva avuta con la prima moglie morta anni
prima.
Dopo
la morte della prima moglie, Gioacchino si era risposato con una nobile vedova
Eriberta da Monsalvo che aveva già una figlia più grande di Angelica, Ludmilla,
bella ma con occhi cattivi quasi come quelli della madre, gli occhi di Eriberta
mi terrorizzarono da subito, cercavo di sfuggirli volgendo lo sguardo nella
direzione di Angelica, che accese subito in me un dolce sentimento di amore nei
suoi confronti, non conoscendo il crudele fato che la mia passione mi avrebbe
cagionato.
Cominciai
così quando mi avventuravo nelle mie lunghe cavalcate, ad andare verso il
maniero di Bibbiana nella speranza di vedere Angelica, perché avevo inteso che anche
lei non era insensibile nei miei riguardi, demmo inizio a incontri nel cortile
della sua magione, i nostri padri si accorsero dei nostri sentimenti e ne
furono compiaciuti.
Ma
si era accorta del nostro amore anche la matrigna, che odiava Angelica e non
voleva che fosse la prescelta, bramava che io indirizzassi il mio amore verso sua
figlia Ludmilla, alla quale voleva dare per prima ricchezza, un giorno mentre ero
nel cortile ad aspettare che Angelica scendesse, mi si avvicinò e sussurrò con
amabili parole che avrei dovuto: o amare Ludmilla o non farmi più vedere in
quella casa, altrimenti avrei corso dei seri pericoli, e mentre diceva questo la
sua voce si era infuriata e una luce ancor più cattiva infiammò i suoi occhi,
un brivido gelido mi attraverso dalla testa ai piedi lasciandomi il cuore senza
battiti per alcuni momenti.
Per
qualche giorno cercai di non tornare a Bibbiana per paura di quello sguardo e
delle minacce di Eriberta, ma nulla poté staccarmi dall’amor mio per Angelica e
così tornai a Bibbiana, un giorno in cui sapevo che la madre e Ludmilla erano
scese a Faggiolo per fare compere per il corredo.
Ma
quando fui di nuovo vicino ad Angelica, preso dal mio amore smarrii il senso del
tempo e mi attardai, finché il rientro sgradito di Eriberta mi sorprese fra le
braccia della mia amata.
Fu
un attimo. Angelica corse via, Eriberta mi puntò i suoi occhi maligni, si
avvicinò e il suo sguardo si incuneò dentro di me, prendendo possesso dei miei
sentimenti, del mio cuore della mia anima e del mio cervello, fu un avvicendarsi
di lampi nella mia mente, mentre lei pur non parlando stava per mutare il mio
essere, mi maledì e mi disse che da quel momento per farmi stare lontano da
Angelica mi avrebbe trasformato in un lupo, così che sarei stato respinto e
cacciato da tutti e avrei sofferto fino alla fine dei miei giorni.
Dette
queste spaventose parole Eriberta rientrò in casa ed io rimasi in uno stato di
allucinazione, vedevo luci e sentivo scoppi nella mia testa, terrorizzato corsi
al mio cavallo per fuggire e rifugiarmi fra la sicurezza delle mura del mio
maniero, folgori e boati squarciavano una notte arrivata prima del tempo e un
diluvio di li a poco mi colse inzuppandomi fino al midollo.
In
quella fuga al buio non mi accorsi che man mano che passava il tempo le mie
membra cambiavano e anche il mio corpo stava subendo una trasformazione che mi
dava fitte dolorosissime e acute, fu solo quando arrivai in prossimità della
porta del mio maniero che mi accorsi che qualcosa era successo, infatti dalle
mura il corpo di guardia invece di aprire le porte cominciò a lanciarmi delle
frecce che fortunatamente non mi colpirono, io chiedevo aiuto, chiamavo il nome
di mio padre, ma nessuno mi rispondeva e quello che capii era il terrore che
loro avevano era per il lupo che si ergeva sulla sella del cavallo del figlio
del castellano.
Allora
ebbi una disumana sensazione e solo in quel momento capii che ero stato
trasformato in lupo, si era avverato il maleficio di Eriberta, sbalzai giù dal
cavallo e per la prima volta in vita mia cominciai a fuggire, i giorni a
seguire rimasi nei paraggi nella speranza che le sorti di questo sortilegio
svanissero, cercando di rendermi conto di cosa mi stava capitando.
La
notte stessa mio padre con diversi armigeri uscì a cercarmi e così i giorni
dopo, fino a quando annientato dal dolore e ormai rassegnato portò l’infelice notizia
a mia madre comunicandole le circostanze che avevano portato alla mia morte,
nei giorni successivi furono organizzate battute di caccia per abbattere quel
lupo che era stato visto nei paraggi e che certamente aveva dilaniato il corpo
del giovane Ugobaldo .
Per
sfuggire dalla mia disperazione e dai quei luoghi diventati per me ormai
pericolosi decisi di portarmi sui monti dell’Appennino dove incontrai altri
lupi e in mezzo a quegli animali iniziai con la morte nel cuore una vita da
lupo, pur non riconoscendomi e non pensando da animale, continuavo a sentirmi
un uomo e a soffrire per il mio sventurato destino.
Un
giorno mentre solo mi avventuravo per quei boschi, vidi arrivare una carovana
con diversi carri e una carrozza scortata da alcuni uomini armati, mi avvicinai
nel momento che si erano fermati per una sosta e gli armigeri si erano
allontanati e mi accorsi che quella carrozza portava la bella Angelica, subito il
mio cuore tremò e rischiai di stramazzare al suolo quando la rividi più bella
che mai.
Assorto
e incantato da quella divina visione vidi arrivare dal fitto bosco un branco di
lupi che cerco di assaltare il convoglio, stavano quasi per avere la meglio ed
entrare nella carrozza quando io ripresomi dal mio stordimento mi lanciai
contro di loro per metterli in fuga e salvare la dolce Angelica, azzannai al
collo il capobranco, lottai con un altro lupo e il branco sconcertato dal mio
fulmineo fare si fermò e arretrò, ma gli armigeri prontamente accorsi, non avendo
capito cosa fosse successo cominciarono a scagliare frecce e sassi nei nostri
confronti, gli altri lupi fuggirono io decisi di fermarmi per un attimo ancora,
volevo incrociare un’ultima volta gli occhi dolcissimi della amata Angelica, ma quella
esitazione ispirata dal sentimento mi fu fatale, una freccia mi trafisse il
cuore e stramazzai a terra moribondo.
Mentre
la carovana riprese la via allontanandosi al sicuro, copiose lacrime
cominciarono a scendere dai miei occhi e formarono una pozza, per quei pochi
istanti non erano lacrime di lupo ma di un uomo, morivo felice avevo offerto la
mia vita per il sol scopo che valesse la pena viverla, salvare quella della mia
amata,
Alcuni
giorni dopo dei passanti trovarono i resti di un lupo nei pressi di una fonte
che non conoscevano dalla quale si dissetarono e da quel giorno la chiamarono “Fonte
al Lupo”.
Caro
viandante, questa è la mia storia, e se un giorno ti fermerai a sorseggiare le
fresche acque della mia fonte, fermati e pensa alla mia storia ma sappi che non
solo la mia voce ma anche la mia anima vaga ancora per questi boschi alla
ricerca anche solo di un respiro della mia dolce Angelica.
Ricerche storiche di Cecco de’
Crivellari
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Cecco de' Crivellari durante la narrazione alla fonte al Lupo |
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il grande interesse dimostrato dagli intervenuti |
LA FONTE DI BAIOCCO
Non
è dato collocare con precisione il periodo in cui si svolse la storia che sto
per narrare, di certo siamo negli anni in cui lentamente da un’economia rurale condotta
solo dai monaci delle abbazie, applicando gli insegnamenti del fondatore
dell’ordine San Benedetto, “ora et labora”, erano ritornati per primi in quei luoghi
abbandonati e incolti nei secoli bui del medioevo, e avevano coltivato con il
loro devoto impegno quelle terre, da prima in prossimità di conventi e poi man
mano allargandosi nei circondari.
Avevano
predisposto culture ormai abbandonate da tempo, grano, viti, olivi, ortaggi e
nelle aree più tipicamente montane avevano impiantato alberi per ricavarne
legni pregiati che fornivano anche legname per le carpenterie navali del tempo
e inoltre castagneti i cui frutti avrebbero avuto gran rilevo per la
sopravvivenza delle popolazioni insediate in quelle terre.
Anche nella terra che stiamo attraversando non a caso,
all’inizio dell’anno mille passata la grande paura di tutte le genti che
prevedeva il compimento della profezia della fine del mondo “ mille e non più
mille “, fu intrapresero una laboriosa opera per innalzare un edificio religioso,
così da esprimere riconoscenza all’Altissimo della grazia che aveva fatto
all’umanità salvandola dalla sua distruzione.
Nella povera valle del rio Vecchione uno sparuto
gruppo di monaci di Valleombrosa guidati da Giovanni Gualberto, decise di
fondare un nuovo monastero; la località scelta fu Moscheta:, allora terra di
proprietà del Conte Anselmo di Pietramala che la donò ai monaci con un miglio
di bosco all’intorno, l’origine del nome di Moscheta sembri derivi da "Mons
Ischetus" l’ischetus o ischio è una specie della quercia dolce,
il tipo di quercia che una volta copriva la zona.
Qualche
secolo dopo la comunità dei monaci era cresciuta, si in numero sia in
proprietà, tanto da dimenticare i principi di fede e carità dettati alla
fondazione dell’ordine monastico, avevano abbandonando la regola della povertà
tanto da diventare a loro volta padroni, vessando i mezzadri che conducevano i
loro terreni amministrati direttamente da loro, o affidandone la gestione a fattori
avidi che aggravavano con il loro comportamento la già misera condizione delle
genti locali.
Vicino
a Moscheta vi erano alcuni insediamenti, a Osteto e lungo la vallata che dallo
stesso borgo portava al Poggio Dei Prati Piani, questo luogo era destinato già
allora al pascolo estivo degli animali, gli abitanti del posto vi portavano a brucare
le loro poche bestie, al margine del pascolo vicino al bosco era situata una
sorgente, la sua acqua fresca abbeverava tutti gli esseri viventi che
frequentavano il luogo, si recava anche nei prati a pascolare le sue due pecore
una giovane vedova di nome Melisenda, con a carico quattro giovani figli, la
famigliola viveva in una catapecchia poco lontana.
In
un giorno di perduta memoria, Melisenda ritornava alla sua povera casa dopo
essersi recata di buona ora al mercato di Razzuolo, stringeva forte in mano il
baiocco che aveva ricevuto come compenso per aver venduto una sacca di lana
scaturita dalla tosatura delle sue pecore.
Incedendo
realizzava con la mente piccoli progetti con quel poco danaro raggranellato,
intendeva prima acquistare qualche pezza di stoffa per rammendare i vestiti
sdruciti dei suoi figli e con il resto alcune vivande che le giovani bocche della
prole spalancate da una fame atavica, aspettavano da tempo.
Camminava
così assorta nelle sue riflessioni ragionando dei problemi che la sua misera
vita gli aveva assegnato, senza che la stessa per la sua condotta avesse
meritato, quando senza accorgersene si trovò nelle vicinanze di quella sorgente
al Poggio Dei Prati Piani, penso di avvicinarsi alle stessa per dissetarsi,
aveva la gola arsa dal lungo cammino, solo arrivata nelle vicinanze della fonte
intravide seduta una donna vecchia che mostrava una condizione di grande
bisogno, vestita in modo miserabile e orami al limite della sopravvivenza.
La
giovane donna, che teneva in mano quell’ambito baiocco su cui aveva già
sviluppato tanti piccoli progetti, vide che la vecchia era in condizioni
peggiori della sua e si impietosì, senza esitare gli donò quell’unica moneta
che possedeva.
La
vecchia la prese e la ringraziò, si alzò a fatica per allontanarsi, ma dopo
pochi passi, si fermò, si volse indietro e quando fu di nuovo vicino a
Melisenda quasi per prodigio, si era tramutata in una giovane bella donna
riccamente vestita, si rivolse alla giovane mamma con voce accattivante
elogiandola per la sua misericordia e carità dimostrata prima e per premiarla
di quello splendido gesto, gli fece dono di un paiolo di rame e un gomitolo di
lana magici, suggerendogli di usarli una volta ritornata a casa, detto ciò
scomparve nel bosco tra un nuvolo di foglie.
Arrivata
a casa incredula, Melisenda mise sul fuoco il paiolo e subito cominciò a
sfornare in continuazione, minestre, polenta, arrosti, verdure e dolci e tanti
altri succulenti cibi, tanto che riuscì da allora a sfamare sempre a sazietà i
suoi figli, poi prese il gomitolo di lana e cominciò a tessere e immediatamente
apparvero una quantità infinita di indumenti, maglie, pantaloni, giacche e calzini,
ottenendo da quell’istante sempre vestiti nuovi per i suoi figli.
A
memoria di quegli eventi, tramandati da generazione in generazione, la sorgente
ai margini dei Prati Piani fu chiamata “ La Fonte di Baiocco”.
Questa
breve storia sia per tutti noi un’esortazione, qualche volta dimentichiamo gli
egoismi che soffiano forte sulla fioca fiamma della bontà, fuoco che però da
sempre riscalda il nostro cuore.
Luigiotto della Maestà
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Luigiotto della Maestà alla fonte al Baiocco |
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nemmeno la pioggia ferma Pierotto il Cuffianese mentre la folla si accalca sotto al palco |
LA SORGENTE DELLA CAGNA MORTA
Nel mio andar per sentieri, sui monti
che circondando la Sambuca,
un giorno sono stato attratto da uno strano nome mai notato prima, dato ad una
fonte detta “Sorgente Della Cagna Morta”.
Incuriosito, avevo chiesto alle
persone incontrate durante le varie soste nei borghi limitrofi, il significato
di tale toponimo, ma nessuno mi aveva dato una risposta in merito, finché un
giorno facendo sosta alla trattoria di Casetta di Tiara per ristorarmi, essendo
il locale pieno, il gestore mi fece accomodare ad un tavolo appartato dove due
persone anziane del paese, stavano bevendo e parlando dei tempi passati.
Mentre attendevo di essere servito
vista la loro disponibilità a conversare con me, chiesi notizie di quella fonte
che si trovava oltre l’abitato della Serra e del suo strano nome, notai nel
loro volto un sorriso di stupore, c’era un fatto ad essi noto accaduto tanti
anni prima e tramandato nei racconti dei loro nonni.
Vista la mia curiosità sull’argomento
di buon grado quasi rubandosi le parole l’un l’altro con dovizia di particolari
mi misero al corrente di quanto accaduto tanto tempo fa.********************************************************************
Circa
a metà del 1800, Cà di Rovigo era abitata da una famiglia composta di due
persone e precisamente Oreste detto “Marte” e la moglie Giovanna detta la
“Svantena”; l’unica figlia era andata in sposa qualche anno prima con una
persona di Ronta.
Veramente
in quella casa dimorava anche un altro essere un cane femmina di pura razza
“pastore maremmano” di nome “Bianchina” per il suo pelo bianco fulgido, era il
vanto del padrone, uomo burbero e scontroso, che in ogni occasione ne tesseva
le lodi, facendosi sempre accompagnare dall’animale nel suo peregrinare nei
mercati e feste paesane.
Accadde
però un fattaccio, in occasione della festa patronale di Firenzuola, mentre
Marte si intratteneva con gli amici in un’osteria distratto da un bicchiere di
vino di troppo, la Bianchina
che era fuori del locale fu avvicinata da un cane randagio, che dopo pochi
convenevoli e un breve corteggiamento, si accoppio con la stessa.
Nessuno
si accorse di niente, soltanto con il passare dei giorni, la “Svantena” fece
notare al marito che il cane ingrassava visibilmente, Marte scoperto l’arcano,
esplose la sua ira incontenibile, si domandava quando e come fosse potuto
accadere un fatto simile alla sua brava Bianchina, se mai aveva notato alcunché
d’anormale nel rapporto con altri cani, inoltre oltre la beffa ragionava anche
sul danno, per il mancato guadagno derivato dalla vendita dei cuccioli, già
richiesti da diverse persone, dopo un programmato accoppiamento con un cane di
pura razza “pastore maremmano”.
Trascorsi
i cinquantadue giorni, la
Bianchina partorì mettendo alla luce sette cuccioli e nessuno
aveva le sembianze della madre, Marte non ebbe un attimo d’esitazione, prese
sei cagnolini li mise in una sacca con un pesante sasso all’interno e li gettò
nel vicino Rio Rovigo, lasciandone alla madre solo uno scelto a casaccio, per
succhiarle il latte e non farla soffrire, ripromettendosi poi di eliminare
anche il cucciolo rimasto appena le condizioni della madre lo avessero
permesso.
Il
cucciolo, avendo tutto per se il latte materno e l’amore della Bianchina,
diventò forte e vigoroso, scampando alla morte grazie alla Svantena, che si
oppose alla sua eliminazione supplicando il marito di risparmiarlo.
Crebbe
comunque fra l’indifferenza di Marte, che neanche il nome gli aveva dato anzi
trattandosi di una femmina, ad ulteriore dispregio l’aveva chiamata volgarmente
“ la cagna” nonostante svolgesse con applicazione la guardia della casa,
dell’ovile e del pollaio e in quel periodo mai lupo, volpe o faina aveva mai
osato avvicinarsi alla Cà di Rovigo e anche alla morte della Bianchina le cose
non cambiarono e i suoi vari tentativi di entrare nelle grazie del padrone
fallirono sempre.
Quando
Marte si allontanava da casa per raggiungere le varie osterie dei borghi
vicini, la cagna non vista lo seguiva, aspettando il suo ritorno fuori dal
paese, la stessa cose fece un giorno in cui il padrone di buon mattino si reco
alla festa dell’Abbazia di Moscheta, sul tardo pomeriggio la cagna lo scorse
che rientrava verso casa e sempre non vista lo seguì a breve distanza.
Marte
oltrepassata la dimora della Serra fu assalito da un lupo, questi nonostante
fosse armato di un bastone stava per essere sopraffatto dalla belva, la cagna
visto il pericolo che minacciava il suo padrone, senza un attimo di esitazione
con coraggioso furore, si scagliò contro il lupo e dopo un furibondo
combattimento riuscì a metterlo in fuga.
Ancora
tremante per lo scampato pericolo di quell’inaspettato incontro, appena
rianimatosi dalla spavento, Marte volse lo sguardo incredulo verso la cagna,
vedendola distesa in terra tutta sanguinante, senza un attimo di esitazione si
precipitò verso l’animale e prendendola in braccio la portò presso una sottostante
sorgente per prestargli soccorso lavandogli le ferite.
Mentre
amorevolmente cercava di rianimarla, le parlava incoraggiandola a resistere
promettendogli che l’avrebbe porta a casa sistemandola vicino al focolare, per
non separarsi mai più.
A
quelle parole una frenesia incontenibile percorse l’animo dell’animale;
finalmente era riuscita a conquistarsi il tanto agognato amore del padrone, il
suo cuore batteva forte, l’emozione e il tumulto dei sentimenti la rendevano
insensibile al dolore delle membra straziate, cercò invano di sollevarsi ma il
suo corpo martoriato e ferito moralmente, non resse a quest’ultimo sforzo, il
povero animale spirò tra le braccia dell’amato padrone.
Marte
capi subito quanto grande fosse stato l’estremo atto compito dall’animale nei
suoi confronti e per rendergli onore e riconoscenza, scavò una buca nei pressi
della sorgente, dandole sepoltura, ricoprendola con dei sassi affinché nessuna
bestia selvatica potesse violare quel sepolcro diventato per lui quasi sacro.
Passarono
gli anni e Marte continuò il suo andare per bettole e mentre si intratteneva
con gli amici a raccontare quel fatto accadutogli presso quella fonte, da cui
prese il nome “Sorgente Della Cagna Morta” esaltando l’eroico gesto di quel
cane, e il numero dei lupi con cui si era battuta e messi in fuga che
aumentavano in rapporto dei bicchieri di vino che beveva.
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Salutati e
ringraziati i miei due interlocutori e dopo offerto loro una bevuta, saziata la
mia fame e la mia curiosità, mi sono rimesso in cammino per affrontare le ore
che mi separavano per ritornare alla mia autovettura.
Mentre percorrevo
quei sentieri immersi nel verde del bosco di faggi e abeti, vagando con il
pensiero sui fatti ascoltati, quasi racconti da fiaba, ero tentato di guardarmi
attorno e alle spalle sperando di rilevare la presenza di quel tenace animale,
che non visto mi seguiva e mi accompagnava per proteggermi dalle insidie del
percorso, dando al mio incedere un senso profondo di serenità e libertà.
Solo
nei sogni gli uomini sono davvero liberi, è da sempre così e così sarà sempre.
Ricerche storiche di Pierotto il Cuffianese
LA FONTE DI BETTA
Se vi capita di andare a
piedi sui nostri Appennini, spartiacque naturale che divide la parte orientale
della pianura Padana dalle colline del Mugello, tra i boschi di faggio solcati
da numerosi corsi d’acqua puri e freschi, ogni tanto fermate il vostro passo e
ascoltate il suono dell’acqua che borbotta leggera quando si incunea placida
tra i sassi del letto del torrente, o rimbomba laddove accompagna la roccia in
erte cascate, la voce del vento che spira violento incidendo il terreno e
alzando nuvole di foglie dorate per incunearsi tra i rami spogli degli alberi
simili a braccia nude che si agitano verso un cielo sconfinato, o a volte
soffia lieve e scivolando accarezza dolcemente le fronde componendo armonie
ineffabili.
Se avrete la fortuna di
trovarvi in una giornata in cui il vento, l’acqua, i rami, le foglie, si
radunano per raccontarsi vicende, avvenimenti di vita o di morte, storie di
amori o di guerre, di cui sono stati antichi testimoni; sostate, sedetevi,
chiudete gli occhi e ascoltate con il cuore i loro straordinari racconti, a me
non capita spesso di prestare loro attenzione, perché la fretta mi priva di
questi privilegi, ma quando ci riesco, vi assicuro che è una momento unico che
merita di essere vissuto.
Pochi mesi fa, durante una
bella giornata estiva, in una valle laterale del rio Rovigo in cui scorre un
suo affluente denominato “Fosso dei Pianacci ”, mentre risalivo il sentiero che
lo costeggia dal Molino dei Diacci a Capanna Marcone, giunto nelle vicinanze
della strada forestale mi sono fermato vicino a una piccola fontanella
delimitata da un cumulo anonimo di sassi, che un’umile targa definisce “Fonte
di Betta”.
Vi ero passato vicino tante
altre volte, sapevo la sua esatta ubicazione avevo assaggiato la sua fresca
acqua che sgorgava dalla sorgente, ma quel giorno il mio animo mi ha chiesto di
fermarmi e di riflettere per domandarmi: “perché mai una così insignificante
fonte, come tante altre nelle vicinanze, avesse una denominazione precisa e che
si fosse tramandata pervenendo fino a nostri giorni.
Ero seduto su un sasso con
gli occhi chiusi assorto e immerso in queste considerazioni, quando
improvvisamente si è alzato un venticello lieve, che danzando tra i rami ha
generato suoni tra le foglie dei faggi, quasi di una voce umana, o almeno così
mi pareva, mi ha accompagnato in una storia cantata e narrata dalle parole del bosco,
che mi ha impedito di allontanarmi fino a che non è stata conclusa.
La collocazione degli
avvenimenti esatta si è persa nel tempo, ma quasi certamente risale agli ultimi
anni dal medioevo, su quei monti in quell’epoca erano ubicati ancora antichi
manieri, guidati dai discendenti dei conti longobardi che avevano occupato la
zona secoli prima e sparsi i primi borghi abitati quasi esclusivamente da gente
umile e povera, che era soggiogata al signore del luogo.
La storia che ho appreso,
raccontava che in quegl’anni nelle vicinanze, viveva una splendida fanciulla,
che stava abbandonando l’età della fanciullezza lasciando i giochi infantili
per sempre, per aprire il suo cuore ai primi palpiti dell’amore, era l’ultima
figlia di un nobile del luogo il signore del castello di Lozzole, tale
“Sigismondo Lo Sgerro”, noto per il suo violento carattere, che lo portava a
scatti di rabbia incontrollata sia in battaglia che in tempo di pace.
La fanciulla, viveva felice
e spensierata con la sua famiglia al castello, il padre, la madre donna
Teofania e i due fratelli maggiori Grimoaldo e Ghildeberto, suo padre come
spesso accadeva in qui tempi, l’aveva promessa in sposa quando era ancora in
fasce, a un suo fedele alleato di tante battaglie più vecchio di molti anni,
“Arnolfo Lo Sfregiato conte di Fornazzano”, si aspettava solo che la giovinetta
giungesse al quattordicesimo anno per celebrare il matrimonio come stabilito.
Frequentava con assiduità il
castello di Sigismondo un trovatore “Gualberto Da Susinana”, giovin di bell’aspetto
e modi gentili, che cantava le gesta eroiche e l’amor cortese di cavalieri e
dame, la fanciulla ne fu subito affascinata, prima dalla romanze che Gualberto
cantava e suonava accompagnandosi con la ribecca, poi per entrambi scocco una
freccia che un Cupido attento non avrebbe mai dovuto scagliare, facendoli
perdutamente innamorare e seppur consci della impossibilità di poterlo vivere
liberamente, si giurarono reciprocamente eterna fedeltà: “o avrebbero vissuto
assieme o non si sarebbero uniti con nessun altro”.
Per poco tempo la tresca
amorosa sfuggi alla famiglia, ma una volta venuto a conoscenza del sentimento
della figlia per Gualberto, Sigismondo con modi tirannici e coattivi, proibì
alla stessa di uscire dalla sua stanza fino al giorno del matrimonio con
Arnolfo.
Giovandosi della momentanea
assenza del padre e dei fratelli impieganti in una battuta di caccia, la
fanciulla con la complicità della balia Eurinice, riuscì a far pervenire al suo
amato una missiva, per concordava un appuntamento tra loro due e quando
riuscirono a incontrarsi furono raggianti, si fusero subito in un’interminabile
abbraccio, si scambiarono con estasi teneri baci, si promisero di nuovo eterna
fedeltà per vivere il loro amore senza più ostacoli, si accordarono anche che
il giorno prima di sposarsi la fanciulla sarebbe scappata dal castello, per
incontrarsi con l’amato Gualberto lungo la vallata del Fosso dei Pianacci e
fuggire in luoghi distanti e vivere sempre assieme.
Ma il perfido balivo del
castello tale Aroldo, venuto a conoscenza delle intenzioni della fanciulla,
riferì la tresca al suo padrone Sigismondo, decise allora una volta per tutte
di dare una lezione a quel giovane trovatore che aveva avuto l’ardire di
insidiare sua figlia’ già promessa ad altra persona.
Il giorno prima del
matrimonio della figlia, Sigismondo e i suoi figli partirono di buon ora dal
castello, per recarsi a cavallo nella vallata del Fosso dei Pianacci, si
appostarono e aspettarono che arrivasse Gualberto da Susinana, appena
sopraggiunse lo affrontarono con brutalità avendone presto ragione e lo
pugnalarono ripetutamente lasciandolo morente vicino all’acqua del fosso.
Come convenuto tra gli
innamorati, era anche scappata dal castello la fanciulla che ignara di quanto
era accaduto al suo amato, stava correndo felice verso il loro incontro con
l’animo pieno di amore desiderosa di vivere il suo travolgente sentimento, ma
la sorte non era stata benevola con i due giovani, aimè che disperazione colse
la giovinetta quando vide il suo bel Gualberto disteso sulla terra tra rivoli
di sangue che scorrevano fino a colorare l’acqua del fosso di rosso, si
precipitò su di lui lo abbraccio quasi pensando di arrestare così il defluire
del sangue, appoggiò le labbra sulle sue cercando di ridargli ancora un anelito
di vita, ma tutto fu inutile, Gualberto quel giorno invece della dolce amata
aveva trovato la morte.
La fanciulla sconsolata gli
resto accanto piangendo e disperandosi per molte ore, finché finite le lacrime
e memore del giuramento che si erano scambiati: “o assieme o con nessun altro”,
a poco a poco maturò dentro se il pensiero di cessare di vivere vicino
all’amore suo e estratto uno stiletto che aveva con se, pronunciando il dolce
nome dell’amato, se lo conficco con forza nel petto cadendo esamine vicino al corpo
di Gualberto.
Solo più tardi suo padre
Sigismondo, non trovandola al castello e con un funesto presentimento ritornò
nel Fosso dei Pianacci e vicino al menestrello assassinato vide anche il corpo
della figlia senza vita, si disperò si pentì ma tardivamente, per riparare in
qualche modo all’efferatezza che aveva perpetrato, portò via i corpi dei
giovani per seppellirli assieme come pensava fosse loro desiderio.
Le foglie degli alberi del
bosco, l’acqua dei fossi e il vento testimoni smarriti di quel dramma, si
commossero e per ricordare senza tempo quella tragedia, dove la fanciulla aveva
fatto cadere le sue lacrime, fecero zampillare una fontanella a suo ricordo,
custodendola e tutelandola per tutti questi anni, la fanciulla che si diede la
morte vicino al suo amato si chiamava Elisabetta, da cui il nome “Fonte Di
Betta”, Betta era il nome con cui Gualberto chiamava la sua amata.
Questa e altre storie
continuano a narrarci i nostri boschi, vicende intrise della loro saggezza resa
florida dai secoli vissuti, molte volte vere altre frutto della fantasia, ma
sempre esortandoci ci invitano almeno finche è possibile a vivere la vita
sempre con grazia.
Luigiotto della Maestà