lunedì 30 aprile 2012

escursione delle 11 fonti fotoracconto

Eravamo in 63 ieri che siamo partiti da Prato all'Albero per l'escursione delle 11 fonti.
Che dire sentieri belli, compagnia altrettanto e quindi nonostante il percorso mediamente lungo sui 20 km e 1460 mt di dislivello totale in salita e altrettanto in discesa fatto in circa 8 ore soste comprese.
Partenza da Prato all'Albero, Capanna Marcone, i Pratoni, Osteto, Badia Moscheta, la Serra,  il mulino dei Diacci e quindi di nuovo Capanna Marcone e Prato all'Albero.
La pioggia ci ha disturbato per una mezz'ora mentre eravamo fermi a mangiare alla Serra ma poi il tempo ha tenuto.
L'escursione è stata accompagnata dalla lettura sulla toponomastica di alcune delle fonti raggiunte da parte di Pierotto il Cuffianese, Luigiotto della Maestà, Cecco de' Crivellari che sono state anche le guide della giornata.

alla partenza
fonte alla Lastra




fonte al Lupo


fonte di Baiocco
cavalli a Badia Moscheta





la sosta a Badia Moscheta


Mino e Bernardina si misurano con un castagno plurisecolare
fonte dei Fossati




alla Serra al riparo della pioggia







 


alcune immagini del Rio Rovigo l'acqua la fa da padrona


storie delle fonti



FONTI E SORGENTI DI ANTICA MEMORIA

In occasione dell’escursione nell’Appennino Toscoromagnolo del 29 aprile 2012, che passerà da undici sorgenti definita “Alla Ricerca Dei Suoni E Dei Sapori Dell’Acqua”, noi umili narratori, ringraziamo la Casa Editrice La Falda, che in una sua qualificata collana che ha per titolo “Solo Vicende Certe”, ha deciso di pubblicare questa opera letteraria che si può definire di nicchia, realizzata per persone con un patrimonio di conoscenze elevato, “siamo a 1000 m. circa” e uomini con l’animo puro e cristallino come le acque che incontreranno.

O viandanti che oggi camminate in questi magici luoghi di perduta memoria
sappiate che le sorte vi è amica, qui le acque sorgive sono prodigiose, basterà un sorso bevuto ad ogni sorgente o fonte che incontrate per trarne grande beneficio.
Domani mattina al risveglio andate a rimirarvi allo specchio e non vedrete più la persona che eravate ieri, ma un essere umano migliorato e arricchito dai bei ricordi vissuti con gli amici il giorno prima.
Benedite e glorificaste con le vostre devozioni, gli umili accompagnatori che tanto fecero e brigarano per allietarvi l’intelligenza e l’animo.
Luigiotto della Maestà e Cecco de' Crivellari mentre iniziano la declamazione delle storie delle fonti
 
FONTE AL LUPO

Gentili cavalier, cortesi dame,
voi che da questi sentier spesso passate, provate ad ascoltar la voce mia,
che dentro il vento ormai va per la via.
Io, Ugobaldo fui chiamato
e nobil di famiglia ero, e di cuore,
e la speranza mia era l’amore.
L’amore che volea contraccambiato da Angelica la più bella del contado.
Or dame e messeri per favore, fate silenzio e vi conterò,
cosa successe in quelle strane terre e la fine assurda che farò.

Versi di romanza cantate dai menestrelli all’inizio del XIV° secolo nelle nostre terre, di ignoto autore.

Si io nacqui in quelle terre fra la Toscana e le Romagne, negli anni a fine del 300, terre splendide e boschive alternate a bei paesi, ma la bellezza della natura era rovinata dalla violenza dell’uomo che per ragioni di potere riteneva che l’unica sua arte nobile fosse la guerra.
Io ero figlio di Ugoberto il Manfredotto e di donna Beatrice discendenti di nobili casate e la mia infanzia fu felice, chiuso nella mia piccola reggia e protetto dalla violenza, dalle spesse mura della mia dimora e dalle spade degli armigeri di mio padre.
Mi affacciai anch’io all’età più bella quella dell’adolescenza, dove cominciai a praticare l’esercizio della spada con il mio maestro Asterino da Todi, che seguiva le imprese di mio padre da tanti anni e mi insegnò le tecniche più innovative per far di me un grande cavaliere.
Un giorno accompagnai mio padre a trovare Gioacchino da Bibbiana al suo maniero, e incontrai Lei, forse aveva 15 anni, Angelica era il suo nome ad era la figlia prediletta di Gioacchino, che l’aveva avuta con la prima moglie morta anni prima.
Dopo la morte della prima moglie, Gioacchino si era risposato con una nobile vedova Eriberta da Monsalvo che aveva già una figlia più grande di Angelica, Ludmilla, bella ma con occhi cattivi quasi come quelli della madre, gli occhi di Eriberta mi terrorizzarono da subito, cercavo di sfuggirli volgendo lo sguardo nella direzione di Angelica, che accese subito in me un dolce sentimento di amore nei suoi confronti, non conoscendo il crudele fato che la mia passione mi avrebbe cagionato.
Cominciai così quando mi avventuravo nelle mie lunghe cavalcate, ad andare verso il maniero di Bibbiana nella speranza di vedere Angelica, perché avevo inteso che anche lei non era insensibile nei miei riguardi, demmo inizio a incontri nel cortile della sua magione, i nostri padri si accorsero dei nostri sentimenti e ne furono compiaciuti.
Ma si era accorta del nostro amore anche la matrigna, che odiava Angelica e non voleva che fosse la prescelta, bramava che io indirizzassi il mio amore verso sua figlia Ludmilla, alla quale voleva dare per prima ricchezza, un giorno mentre ero nel cortile ad aspettare che Angelica scendesse, mi si avvicinò e sussurrò con amabili parole che avrei dovuto: o amare Ludmilla o non farmi più vedere in quella casa, altrimenti avrei corso dei seri pericoli, e mentre diceva questo la sua voce si era infuriata e una luce ancor più cattiva infiammò i suoi occhi, un brivido gelido mi attraverso dalla testa ai piedi lasciandomi il cuore senza battiti per alcuni momenti.
Per qualche giorno cercai di non tornare a Bibbiana per paura di quello sguardo e delle minacce di Eriberta, ma nulla poté staccarmi dall’amor mio per Angelica e così tornai a Bibbiana, un giorno in cui sapevo che la madre e Ludmilla erano scese a Faggiolo per fare compere per il corredo.
Ma quando fui di nuovo vicino ad Angelica, preso dal mio amore smarrii il senso del tempo e mi attardai, finché il rientro sgradito di Eriberta mi sorprese fra le braccia della mia amata.
Fu un attimo. Angelica corse via, Eriberta mi puntò i suoi occhi maligni, si avvicinò e il suo sguardo si incuneò dentro di me, prendendo possesso dei miei sentimenti, del mio cuore della mia anima e del mio cervello, fu un avvicendarsi di lampi nella mia mente, mentre lei pur non parlando stava per mutare il mio essere, mi maledì e mi disse che da quel momento per farmi stare lontano da Angelica mi avrebbe trasformato in un lupo, così che sarei stato respinto e cacciato da tutti e avrei sofferto fino alla fine dei miei giorni.
Dette queste spaventose parole Eriberta rientrò in casa ed io rimasi in uno stato di allucinazione, vedevo luci e sentivo scoppi nella mia testa, terrorizzato corsi al mio cavallo per fuggire e rifugiarmi fra la sicurezza delle mura del mio maniero, folgori e boati squarciavano una notte arrivata prima del tempo e un diluvio di li a poco mi colse inzuppandomi fino al midollo.
In quella fuga al buio non mi accorsi che man mano che passava il tempo le mie membra cambiavano e anche il mio corpo stava subendo una trasformazione che mi dava fitte dolorosissime e acute, fu solo quando arrivai in prossimità della porta del mio maniero che mi accorsi che qualcosa era successo, infatti dalle mura il corpo di guardia invece di aprire le porte cominciò a lanciarmi delle frecce che fortunatamente non mi colpirono, io chiedevo aiuto, chiamavo il nome di mio padre, ma nessuno mi rispondeva e quello che capii era il terrore che loro avevano era per il lupo che si ergeva sulla sella del cavallo del figlio del castellano.
Allora ebbi una disumana sensazione e solo in quel momento capii che ero stato trasformato in lupo, si era avverato il maleficio di Eriberta, sbalzai giù dal cavallo e per la prima volta in vita mia cominciai a fuggire, i giorni a seguire rimasi nei paraggi nella speranza che le sorti di questo sortilegio svanissero, cercando di rendermi conto di cosa mi stava capitando.
La notte stessa mio padre con diversi armigeri uscì a cercarmi e così i giorni dopo, fino a quando annientato dal dolore e ormai rassegnato portò l’infelice notizia a mia madre comunicandole le circostanze che avevano portato alla mia morte, nei giorni successivi furono organizzate battute di caccia per abbattere quel lupo che era stato visto nei paraggi e che certamente aveva dilaniato il corpo del giovane Ugobaldo .
Per sfuggire dalla mia disperazione e dai quei luoghi diventati per me ormai pericolosi decisi di portarmi sui monti dell’Appennino dove incontrai altri lupi e in mezzo a quegli animali iniziai con la morte nel cuore una vita da lupo, pur non riconoscendomi e non pensando da animale, continuavo a sentirmi un uomo e a soffrire per il mio sventurato destino.
Un giorno mentre solo mi avventuravo per quei boschi, vidi arrivare una carovana con diversi carri e una carrozza scortata da alcuni uomini armati, mi avvicinai nel momento che si erano fermati per una sosta e gli armigeri si erano allontanati e mi accorsi che quella carrozza portava la bella Angelica, subito il mio cuore tremò e rischiai di stramazzare al suolo quando la rividi più bella che mai.
Assorto e incantato da quella divina visione vidi arrivare dal fitto bosco un branco di lupi che cerco di assaltare il convoglio, stavano quasi per avere la meglio ed entrare nella carrozza quando io ripresomi dal mio stordimento mi lanciai contro di loro per metterli in fuga e salvare la dolce Angelica, azzannai al collo il capobranco, lottai con un altro lupo e il branco sconcertato dal mio fulmineo fare si fermò e arretrò, ma gli armigeri prontamente accorsi, non avendo capito cosa fosse successo cominciarono a scagliare frecce e sassi nei nostri confronti, gli altri lupi fuggirono io decisi di fermarmi per un attimo ancora, volevo incrociare un’ultima volta gli occhi dolcissimi della amata Angelica, ma quella esitazione ispirata dal sentimento mi fu fatale, una freccia mi trafisse il cuore e stramazzai a terra moribondo.
Mentre la carovana riprese la via allontanandosi al sicuro, copiose lacrime cominciarono a scendere dai miei occhi e formarono una pozza, per quei pochi istanti non erano lacrime di lupo ma di un uomo, morivo felice avevo offerto la mia vita per il sol scopo che valesse la pena viverla, salvare quella della mia amata,
Alcuni giorni dopo dei passanti trovarono i resti di un lupo nei pressi di una fonte che non conoscevano dalla quale si dissetarono e da quel giorno la chiamarono “Fonte al Lupo”.
Caro viandante, questa è la mia storia, e se un giorno ti fermerai a sorseggiare le fresche acque della mia fonte, fermati e pensa alla mia storia ma sappi che non solo la mia voce ma anche la mia anima vaga ancora per questi boschi alla ricerca anche solo di un respiro della mia dolce Angelica.

Ricerche storiche di Cecco de’ Crivellari



Cecco de' Crivellari durante la narrazione alla fonte al Lupo
il grande interesse dimostrato dagli intervenuti




LA FONTE DI BAIOCCO

Non è dato collocare con precisione il periodo in cui si svolse la storia che sto per narrare, di certo siamo negli anni in cui lentamente da un’economia rurale condotta solo dai monaci delle abbazie, applicando gli insegnamenti del fondatore dell’ordine San Benedetto, “ora et labora”, erano ritornati per primi in quei luoghi abbandonati e incolti nei secoli bui del medioevo, e avevano coltivato con il loro devoto impegno quelle terre, da prima in prossimità di conventi e poi man mano allargandosi nei circondari.
Avevano predisposto culture ormai abbandonate da tempo, grano, viti, olivi, ortaggi e nelle aree più tipicamente montane avevano impiantato alberi per ricavarne legni pregiati che fornivano anche legname per le carpenterie navali del tempo e inoltre castagneti i cui frutti avrebbero avuto gran rilevo per la sopravvivenza delle popolazioni insediate in quelle terre.
Anche nella terra che stiamo attraversando non a caso, all’inizio dell’anno mille passata la grande paura di tutte le genti che prevedeva il compimento della profezia della fine del mondo “ mille e non più mille “, fu intrapresero una laboriosa opera per innalzare un edificio religioso, così da esprimere riconoscenza all’Altissimo della grazia che aveva fatto all’umanità salvandola dalla sua distruzione.
Nella povera valle del rio Vecchione uno sparuto gruppo di monaci di Valleombrosa guidati da Giovanni Gualberto, decise di fondare un nuovo monastero; la località scelta fu Moscheta:, allora terra di proprietà del Conte Anselmo di Pietramala che la donò ai monaci con un miglio di bosco all’intorno, l’origine del nome di Moscheta sembri derivi da "Mons Ischetus" l’ischetus o ischio è una specie della quercia dolce, il tipo di quercia che una volta copriva la zona.
Qualche secolo dopo la comunità dei monaci era cresciuta, si in numero sia in proprietà, tanto da dimenticare i principi di fede e carità dettati alla fondazione dell’ordine monastico, avevano abbandonando la regola della povertà tanto da diventare a loro volta padroni, vessando i mezzadri che conducevano i loro terreni amministrati direttamente da loro, o affidandone la gestione a fattori avidi che aggravavano con il loro comportamento la già misera condizione delle genti locali.
Vicino a Moscheta vi erano alcuni insediamenti, a Osteto e lungo la vallata che dallo stesso borgo portava al Poggio Dei Prati Piani, questo luogo era destinato già allora al pascolo estivo degli animali, gli abitanti del posto vi portavano a brucare le loro poche bestie, al margine del pascolo vicino al bosco era situata una sorgente, la sua acqua fresca abbeverava tutti gli esseri viventi che frequentavano il luogo, si recava anche nei prati a pascolare le sue due pecore una giovane vedova di nome Melisenda, con a carico quattro giovani figli, la famigliola viveva in una catapecchia poco lontana.
In un giorno di perduta memoria, Melisenda ritornava alla sua povera casa dopo essersi recata di buona ora al mercato di Razzuolo, stringeva forte in mano il baiocco che aveva ricevuto come compenso per aver venduto una sacca di lana scaturita dalla tosatura delle sue pecore.
Incedendo realizzava con la mente piccoli progetti con quel poco danaro raggranellato, intendeva prima acquistare qualche pezza di stoffa per rammendare i vestiti sdruciti dei suoi figli e con il resto alcune vivande che le giovani bocche della prole spalancate da una fame atavica, aspettavano da tempo.
Camminava così assorta nelle sue riflessioni ragionando dei problemi che la sua misera vita gli aveva assegnato, senza che la stessa per la sua condotta avesse meritato, quando senza accorgersene si trovò nelle vicinanze di quella sorgente al Poggio Dei Prati Piani, penso di avvicinarsi alle stessa per dissetarsi, aveva la gola arsa dal lungo cammino, solo arrivata nelle vicinanze della fonte intravide seduta una donna vecchia che mostrava una condizione di grande bisogno, vestita in modo miserabile e orami al limite della sopravvivenza.
La giovane donna, che teneva in mano quell’ambito baiocco su cui aveva già sviluppato tanti piccoli progetti, vide che la vecchia era in condizioni peggiori della sua e si impietosì, senza esitare gli donò quell’unica moneta che possedeva.
La vecchia la prese e la ringraziò, si alzò a fatica per allontanarsi, ma dopo pochi passi, si fermò, si volse indietro e quando fu di nuovo vicino a Melisenda quasi per prodigio, si era tramutata in una giovane bella donna riccamente vestita, si rivolse alla giovane mamma con voce accattivante elogiandola per la sua misericordia e carità dimostrata prima e per premiarla di quello splendido gesto, gli fece dono di un paiolo di rame e un gomitolo di lana magici, suggerendogli di usarli una volta ritornata a casa, detto ciò scomparve nel bosco tra un nuvolo di foglie.
Arrivata a casa incredula, Melisenda mise sul fuoco il paiolo e subito cominciò a sfornare in continuazione, minestre, polenta, arrosti, verdure e dolci e tanti altri succulenti cibi, tanto che riuscì da allora a sfamare sempre a sazietà i suoi figli, poi prese il gomitolo di lana e cominciò a tessere e immediatamente apparvero una quantità infinita di indumenti, maglie, pantaloni, giacche e calzini, ottenendo da quell’istante sempre vestiti nuovi per i suoi figli.
A memoria di quegli eventi, tramandati da generazione in generazione, la sorgente ai margini dei Prati Piani fu chiamata “ La Fonte di Baiocco”.
Questa breve storia sia per tutti noi un’esortazione, qualche volta dimentichiamo gli egoismi che soffiano forte sulla fioca fiamma della bontà, fuoco che però da sempre riscalda il nostro cuore.

Luigiotto della Maestà



Luigiotto della Maestà alla fonte al Baiocco







nemmeno la pioggia ferma Pierotto il Cuffianese mentre la folla si accalca sotto al palco








LA SORGENTE DELLA CAGNA MORTA

Nel mio andar per sentieri, sui monti che circondando la Sambuca, un giorno sono stato attratto da uno strano nome mai notato prima, dato ad una fonte detta “Sorgente Della Cagna Morta”.
Incuriosito, avevo chiesto alle persone incontrate durante le varie soste nei borghi limitrofi, il significato di tale toponimo, ma nessuno mi aveva dato una risposta in merito, finché un giorno facendo sosta alla trattoria di Casetta di Tiara per ristorarmi, essendo il locale pieno, il gestore mi fece accomodare ad un tavolo appartato dove due persone anziane del paese, stavano bevendo e parlando dei tempi passati.
Mentre attendevo di essere servito vista la loro disponibilità a conversare con me, chiesi notizie di quella fonte che si trovava oltre l’abitato della Serra e del suo strano nome, notai nel loro volto un sorriso di stupore, c’era un fatto ad essi noto accaduto tanti anni prima e tramandato nei racconti dei loro nonni.
Vista la mia curiosità sull’argomento di buon grado quasi rubandosi le parole l’un l’altro con dovizia di particolari mi misero al corrente di quanto accaduto tanto tempo fa.********************************************************************
Circa a metà del 1800, Cà di Rovigo era abitata da una famiglia composta di due persone e precisamente Oreste detto “Marte” e la moglie Giovanna detta la “Svantena”; l’unica figlia era andata in sposa qualche anno prima con una persona di Ronta.
Veramente in quella casa dimorava anche un altro essere un cane femmina di pura razza “pastore maremmano” di nome “Bianchina” per il suo pelo bianco fulgido, era il vanto del padrone, uomo burbero e scontroso, che in ogni occasione ne tesseva le lodi, facendosi sempre accompagnare dall’animale nel suo peregrinare nei mercati e feste paesane.
Accadde però un fattaccio, in occasione della festa patronale di Firenzuola, mentre Marte si intratteneva con gli amici in un’osteria distratto da un bicchiere di vino di troppo, la Bianchina che era fuori del locale fu avvicinata da un cane randagio, che dopo pochi convenevoli e un breve corteggiamento, si accoppio con la stessa.
Nessuno si accorse di niente, soltanto con il passare dei giorni, la “Svantena” fece notare al marito che il cane ingrassava visibilmente, Marte scoperto l’arcano, esplose la sua ira incontenibile, si domandava quando e come fosse potuto accadere un fatto simile alla sua brava Bianchina, se mai aveva notato alcunché d’anormale nel rapporto con altri cani, inoltre oltre la beffa ragionava anche sul danno, per il mancato guadagno derivato dalla vendita dei cuccioli, già richiesti da diverse persone, dopo un programmato accoppiamento con un cane di pura razza “pastore maremmano”.
Trascorsi i cinquantadue giorni, la Bianchina partorì mettendo alla luce sette cuccioli e nessuno aveva le sembianze della madre, Marte non ebbe un attimo d’esitazione, prese sei cagnolini li mise in una sacca con un pesante sasso all’interno e li gettò nel vicino Rio Rovigo, lasciandone alla madre solo uno scelto a casaccio, per succhiarle il latte e non farla soffrire, ripromettendosi poi di eliminare anche il cucciolo rimasto appena le condizioni della madre lo avessero permesso.
Il cucciolo, avendo tutto per se il latte materno e l’amore della Bianchina, diventò forte e vigoroso, scampando alla morte grazie alla Svantena, che si oppose alla sua eliminazione supplicando il marito di risparmiarlo.
Crebbe comunque fra l’indifferenza di Marte, che neanche il nome gli aveva dato anzi trattandosi di una femmina, ad ulteriore dispregio l’aveva chiamata volgarmente “ la cagna” nonostante svolgesse con applicazione la guardia della casa, dell’ovile e del pollaio e in quel periodo mai lupo, volpe o faina aveva mai osato avvicinarsi alla Cà di Rovigo e anche alla morte della Bianchina le cose non cambiarono e i suoi vari tentativi di entrare nelle grazie del padrone fallirono sempre.
Quando Marte si allontanava da casa per raggiungere le varie osterie dei borghi vicini, la cagna non vista lo seguiva, aspettando il suo ritorno fuori dal paese, la stessa cose fece un giorno in cui il padrone di buon mattino si reco alla festa dell’Abbazia di Moscheta, sul tardo pomeriggio la cagna lo scorse che rientrava verso casa e sempre non vista lo seguì a breve distanza.
Marte oltrepassata la dimora della Serra fu assalito da un lupo, questi nonostante fosse armato di un bastone stava per essere sopraffatto dalla belva, la cagna visto il pericolo che minacciava il suo padrone, senza un attimo di esitazione con coraggioso furore, si scagliò contro il lupo e dopo un furibondo combattimento riuscì a metterlo in fuga.
Ancora tremante per lo scampato pericolo di quell’inaspettato incontro, appena rianimatosi dalla spavento, Marte volse lo sguardo incredulo verso la cagna, vedendola distesa in terra tutta sanguinante, senza un attimo di esitazione si precipitò verso l’animale e prendendola in braccio la portò presso una sottostante sorgente per prestargli soccorso lavandogli le ferite.
Mentre amorevolmente cercava di rianimarla, le parlava incoraggiandola a resistere promettendogli che l’avrebbe porta a casa sistemandola vicino al focolare, per non separarsi mai più.
A quelle parole una frenesia incontenibile percorse l’animo dell’animale; finalmente era riuscita a conquistarsi il tanto agognato amore del padrone, il suo cuore batteva forte, l’emozione e il tumulto dei sentimenti la rendevano insensibile al dolore delle membra straziate, cercò invano di sollevarsi ma il suo corpo martoriato e ferito moralmente, non resse a quest’ultimo sforzo, il povero animale spirò tra le braccia dell’amato padrone.
Marte capi subito quanto grande fosse stato l’estremo atto compito dall’animale nei suoi confronti e per rendergli onore e riconoscenza, scavò una buca nei pressi della sorgente, dandole sepoltura, ricoprendola con dei sassi affinché nessuna bestia selvatica potesse violare quel sepolcro diventato per lui quasi sacro.
Passarono gli anni e Marte continuò il suo andare per bettole e mentre si intratteneva con gli amici a raccontare quel fatto accadutogli presso quella fonte, da cui prese il nome “Sorgente Della Cagna Morta” esaltando l’eroico gesto di quel cane, e il numero dei lupi con cui si era battuta e messi in fuga che aumentavano in rapporto dei bicchieri di vino che beveva.
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Salutati e ringraziati i miei due interlocutori e dopo offerto loro una bevuta, saziata la mia fame e la mia curiosità, mi sono rimesso in cammino per affrontare le ore che mi separavano per ritornare alla mia autovettura.
Mentre percorrevo quei sentieri immersi nel verde del bosco di faggi e abeti, vagando con il pensiero sui fatti ascoltati, quasi racconti da fiaba, ero tentato di guardarmi attorno e alle spalle sperando di rilevare la presenza di quel tenace animale, che non visto mi seguiva e mi accompagnava per proteggermi dalle insidie del percorso, dando al mio incedere un senso profondo di serenità e libertà.
Solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi, è da sempre così e così sarà sempre.

Ricerche storiche di Pierotto il Cuffianese

LA FONTE DI BETTA

Se vi capita di andare a piedi sui nostri Appennini, spartiacque naturale che divide la parte orientale della pianura Padana dalle colline del Mugello, tra i boschi di faggio solcati da numerosi corsi d’acqua puri e freschi, ogni tanto fermate il vostro passo e ascoltate il suono dell’acqua che borbotta leggera quando si incunea placida tra i sassi del letto del torrente, o rimbomba laddove accompagna la roccia in erte cascate, la voce del vento che spira violento incidendo il terreno e alzando nuvole di foglie dorate per incunearsi tra i rami spogli degli alberi simili a braccia nude che si agitano verso un cielo sconfinato, o a volte soffia lieve e scivolando accarezza dolcemente le fronde componendo armonie ineffabili.
Se avrete la fortuna di trovarvi in una giornata in cui il vento, l’acqua, i rami, le foglie, si radunano per raccontarsi vicende, avvenimenti di vita o di morte, storie di amori o di guerre, di cui sono stati antichi testimoni; sostate, sedetevi, chiudete gli occhi e ascoltate con il cuore i loro straordinari racconti, a me non capita spesso di prestare loro attenzione, perché la fretta mi priva di questi privilegi, ma quando ci riesco, vi assicuro che è una momento unico che merita di essere vissuto.
Pochi mesi fa, durante una bella giornata estiva, in una valle laterale del rio Rovigo in cui scorre un suo affluente denominato “Fosso dei Pianacci ”, mentre risalivo il sentiero che lo costeggia dal Molino dei Diacci a Capanna Marcone, giunto nelle vicinanze della strada forestale mi sono fermato vicino a una piccola fontanella delimitata da un cumulo anonimo di sassi, che un’umile targa definisce “Fonte di Betta”.
Vi ero passato vicino tante altre volte, sapevo la sua esatta ubicazione avevo assaggiato la sua fresca acqua che sgorgava dalla sorgente, ma quel giorno il mio animo mi ha chiesto di fermarmi e di riflettere per domandarmi: “perché mai una così insignificante fonte, come tante altre nelle vicinanze, avesse una denominazione precisa e che si fosse tramandata pervenendo fino a nostri giorni.
Ero seduto su un sasso con gli occhi chiusi assorto e immerso in queste considerazioni, quando improvvisamente si è alzato un venticello lieve, che danzando tra i rami ha generato suoni tra le foglie dei faggi, quasi di una voce umana, o almeno così mi pareva, mi ha accompagnato in una storia cantata e narrata dalle parole del bosco, che mi ha impedito di allontanarmi fino a che non è stata conclusa.
La collocazione degli avvenimenti esatta si è persa nel tempo, ma quasi certamente risale agli ultimi anni dal medioevo, su quei monti in quell’epoca erano ubicati ancora antichi manieri, guidati dai discendenti dei conti longobardi che avevano occupato la zona secoli prima e sparsi i primi borghi abitati quasi esclusivamente da gente umile e povera, che era soggiogata al signore del luogo.
La storia che ho appreso, raccontava che in quegl’anni nelle vicinanze, viveva una splendida fanciulla, che stava abbandonando l’età della fanciullezza lasciando i giochi infantili per sempre, per aprire il suo cuore ai primi palpiti dell’amore, era l’ultima figlia di un nobile del luogo il signore del castello di Lozzole, tale “Sigismondo Lo Sgerro”, noto per il suo violento carattere, che lo portava a scatti di rabbia incontrollata sia in battaglia che in tempo di pace.
La fanciulla, viveva felice e spensierata con la sua famiglia al castello, il padre, la madre donna Teofania e i due fratelli maggiori Grimoaldo e Ghildeberto, suo padre come spesso accadeva in qui tempi, l’aveva promessa in sposa quando era ancora in fasce, a un suo fedele alleato di tante battaglie più vecchio di molti anni, “Arnolfo Lo Sfregiato conte di Fornazzano”, si aspettava solo che la giovinetta giungesse al quattordicesimo anno per celebrare il matrimonio come stabilito.
Frequentava con assiduità il castello di Sigismondo un trovatore “Gualberto Da Susinana”, giovin di bell’aspetto e modi gentili, che cantava le gesta eroiche e l’amor cortese di cavalieri e dame, la fanciulla ne fu subito affascinata, prima dalla romanze che Gualberto cantava e suonava accompagnandosi con la ribecca, poi per entrambi scocco una freccia che un Cupido attento non avrebbe mai dovuto scagliare, facendoli perdutamente innamorare e seppur consci della impossibilità di poterlo vivere liberamente, si giurarono reciprocamente eterna fedeltà: “o avrebbero vissuto assieme o non si sarebbero uniti con nessun altro”.
Per poco tempo la tresca amorosa sfuggi alla famiglia, ma una volta venuto a conoscenza del sentimento della figlia per Gualberto, Sigismondo con modi tirannici e coattivi, proibì alla stessa di uscire dalla sua stanza fino al giorno del matrimonio con Arnolfo.
Giovandosi della momentanea assenza del padre e dei fratelli impieganti in una battuta di caccia, la fanciulla con la complicità della balia Eurinice, riuscì a far pervenire al suo amato una missiva, per concordava un appuntamento tra loro due e quando riuscirono a incontrarsi furono raggianti, si fusero subito in un’interminabile abbraccio, si scambiarono con estasi teneri baci, si promisero di nuovo eterna fedeltà per vivere il loro amore senza più ostacoli, si accordarono anche che il giorno prima di sposarsi la fanciulla sarebbe scappata dal castello, per incontrarsi con l’amato Gualberto lungo la vallata del Fosso dei Pianacci e fuggire in luoghi distanti e vivere sempre assieme.
Ma il perfido balivo del castello tale Aroldo, venuto a conoscenza delle intenzioni della fanciulla, riferì la tresca al suo padrone Sigismondo, decise allora una volta per tutte di dare una lezione a quel giovane trovatore che aveva avuto l’ardire di insidiare sua figlia’ già promessa ad altra persona.
Il giorno prima del matrimonio della figlia, Sigismondo e i suoi figli partirono di buon ora dal castello, per recarsi a cavallo nella vallata del Fosso dei Pianacci, si appostarono e aspettarono che arrivasse Gualberto da Susinana, appena sopraggiunse lo affrontarono con brutalità avendone presto ragione e lo pugnalarono ripetutamente lasciandolo morente vicino all’acqua del fosso.
Come convenuto tra gli innamorati, era anche scappata dal castello la fanciulla che ignara di quanto era accaduto al suo amato, stava correndo felice verso il loro incontro con l’animo pieno di amore desiderosa di vivere il suo travolgente sentimento, ma la sorte non era stata benevola con i due giovani, aimè che disperazione colse la giovinetta quando vide il suo bel Gualberto disteso sulla terra tra rivoli di sangue che scorrevano fino a colorare l’acqua del fosso di rosso, si precipitò su di lui lo abbraccio quasi pensando di arrestare così il defluire del sangue, appoggiò le labbra sulle sue cercando di ridargli ancora un anelito di vita, ma tutto fu inutile, Gualberto quel giorno invece della dolce amata aveva trovato la morte.
La fanciulla sconsolata gli resto accanto piangendo e disperandosi per molte ore, finché finite le lacrime e memore del giuramento che si erano scambiati: “o assieme o con nessun altro”, a poco a poco maturò dentro se il pensiero di cessare di vivere vicino all’amore suo e estratto uno stiletto che aveva con se, pronunciando il dolce nome dell’amato, se lo conficco con forza nel petto cadendo esamine vicino al corpo di Gualberto.
Solo più tardi suo padre Sigismondo, non trovandola al castello e con un funesto presentimento ritornò nel Fosso dei Pianacci e vicino al menestrello assassinato vide anche il corpo della figlia senza vita, si disperò si pentì ma tardivamente, per riparare in qualche modo all’efferatezza che aveva perpetrato, portò via i corpi dei giovani per seppellirli assieme come pensava fosse loro desiderio.
Le foglie degli alberi del bosco, l’acqua dei fossi e il vento testimoni smarriti di quel dramma, si commossero e per ricordare senza tempo quella tragedia, dove la fanciulla aveva fatto cadere le sue lacrime, fecero zampillare una fontanella a suo ricordo, custodendola e tutelandola per tutti questi anni, la fanciulla che si diede la morte vicino al suo amato si chiamava Elisabetta, da cui il nome “Fonte Di Betta”, Betta era il nome con cui Gualberto chiamava la sua amata.
Questa e altre storie continuano a narrarci i nostri boschi, vicende intrise della loro saggezza resa florida dai secoli vissuti, molte volte vere altre frutto della fantasia, ma sempre esortandoci ci invitano almeno finche è possibile a vivere la vita sempre con grazia.
Luigiotto della Maestà









un'escursione sul lago di Como

Il 21 e 22 aprile abbiamo fatto insieme al Cai di Faenza una bella escursione sul lago di Como, buona la delegazione riolese eravamo in 5.
Il sabato siamo partiti da Civate per raggiungere il santuario di San Pietro e poi arrivare in cima al monte con un dislivello di oltre 1000 metri scendere verso Canzo attraversando un bosco bellissimo siamo arrivati al paese verso le 19, dove dopo aver preso possesso delle camere ci siamo espressi al meglio a tavola.
La domenica mattina, tempo brutto, pioggia battente che smette solo quando entriamo in pulman.
Il cielo sta tenendo il pulman ci lascia a 700 metri di altezza dove dovremo salire verso il monte San Primo a oltre 1500 metri, appena il pulman se ne va ricomincia a piovere a dirotto, tempo 5 minuti e siamo inzuppati, comincia così l'ascesa che ci porta al monte Nuvolone, fra grandine tuoni e fulmini, alle 10 in punto come predetto da Ginevra della Lama smette di piovere, siamo in cima al primo crinale, decidiamo di non arrivare al Monte San Primo e ci fermiamo a 1400 mt per scendere in mezzo alla neve al rifugio dove mangeremo la polenta Uncia che ci ristorerà, mentre i nostri panni stesi sullo steccato insieme agli zaini tentano di asciugarsi.
Nel pomeriggio il sole ha la meglio e lo spettacolo risulta affascinante, c'è un ambiente veramente bello, cielo terso, monti imbiancati di neve, verde dei boschi e dei prati e blu dell'acqua del lago, abbiamo Bellagio sotto di noi e dobbiamo raggiungerlo, vi arriveremo alle 17 passate dopo oltre 1200 mt di discesa.
 Bella escursione, gli accompagnatori Pat e Gianni, ( il suo gemello , sono uguali) sono stati all'altezza della situazione.

inizio della salita al primo giorno

un ovile




alcuni aspetti del Santuario di San Pietro


veduta dal santuario




 





i campi solcati


 


                                                           








                                                                         foto del 2° giorno







 




 




                                                                        fiori